ELEZIONI REGIONALI IN CAMPANIA. LA FALSA IRONIA DI PIAZZA PLEBISCITO

 

Salerno, 23 Marzo 2010

 

Ambrogio IETTO

 

IL LINGUAGGIO PROPRIO DI DE LUCA

 

Tra sabato sera e domenica sono stato raggiunto da alcune telefonate provenienti da Napoli e dintorni. All’altro capo della cornetta si sono avvicendati altrettanti conoscenti o amici di consolidata tradizione partenopea che, o apparivano divertiti e appagati dal linguaggio utilizzato dal nostro sindaco e candidato a governatore della Campania nel corso del suo comizio tenuto a piazza Plebiscito, oppure esprimevano sorpresa mista a sdegno per la gravità e la discutibilità di alcune espressioni verbali proferite dallo stesso.

Quasi tutti gli interlocutori accompagnavano le loro simpatiche considerazioni con battute di questo tipo: ‘ Caspita, ma è questa la salernitanità ? Se è così siete proprio forti!‘ oppure ‘ Ma è vero che parla sempre in questo modo attraverso un’emittente locale ? E se è così voi tacitamente accettate i suoi discorsi e vi state zitti ? ‘.

Ovviamente ho cercato di reggere in modo divertito alle loro simpatiche provocazioni, rispondendo col garbo dovuto a quanto chiestomi  Nella sostanza  ho cercato di svolgere più o meno sinteticamente questo ragionamento:

a ) la salernitanità, intesa come espressione distintiva dell’identità antropologica degli abitanti la seconda città della Campania, di fatto non esiste nel senso che il continuo processo di immigrazione con porto di approdo Salerno, sviluppatosi in dimensioni consistenti a partire dai primissimi anni cinquanta, ha sostanzialmente attutito la cultura della comunità di origine. Lo dimostra il fatto che anche alcuni  sindaci  significativi, tra i quali Menna, De Luca e De Biase sono nati rispettivamente in terra irpina, lucana e partenopea come pure fuori delle mura della città nacquero uomini politici come Valitutti, Tesauro, Conte, Russo, D’Arezzo, Scarlato, Lettieri, Angrisani, Quaranta, Conte, Valiante Mario, Del Mese e tanti altri. La salernitanità, pertanto, è una categoria mentale strumentalmente inventata da De Luca per criticare Bassolino e il napolicentrismo a lui collegato;

b ) pertanto il tipo di comunicazione verbale scelto da De Luca non appartiene per niente a Salerno né al piccolo e suggestivo comune montano di Ruvo del Monte ove egli ebbe i natali. Né si può pensare che la scelta operata di rendere il suo linguaggio ruvido discenda dalla radice del paese natio;

c) De Luca parla in modo rude, brusco, sbrigativo con ricorrenti manifestazioni di aggressività perché quel modo di partecipare la sua elaborazione cognitiva risponde in parte al proprio patrimonio caratteriale e in parte all’azione pedagogica subita presso le scuole di partito frequentate alle Frattocchie e a via delle Botteghe Oscure. Egli andava formato ad essere capopopolo in grado di arringare le masse per occupare le terre nella Piana del Sele e per far bene  il sindacalista e il tribuno di professione.

Poi ha avuto modo di verificare in itinere che il tono usato, la struttura sintattica preferita, le battute offensive di tanto in tanto espresse gli davano maggiore sicurezza psicologica e producevano effetti positivi su una consistente parte della comunità amministrata, bisognevole di identificarsi con un sindaco determinato, decisionista e, se si vuole, anche sceriffo;

d) la ricaduta sostanzialmente positiva del suo modo di comunicare ha fatto sì che il popolo amministrato si divertisse anche ad essere definito cafone ed incivile sia pure con i comodi distinguo delle eccezioni strumentalmente espresse ;

e ) la scelta compiuta di identificare Caldoro  ‘pastoriello di Capodimonte, anzi no di San Gregorio Armeno ‘ o il presidente della provincia di Napoli Cesaro ‘ Gigino la polpetta ’, privo dei tratti biologici di uomo e ‘sterminatore di congiuntivi ‘ e cosi via è stata deliberatamente voluta anche su probabile suggerimento del suo consigliere esperto di comunicazione.

Infatti De Luca, ritenendo il popolo napoletano avvezzo al linguaggio del vecchio Salone Margherita, del Trianon  o degli occupanti la curva sud del San Paolo, di tanto in tanto ha considerato opportuno interrompere considerazioni di spiccato sapore politico e far distendere la platea di piazza Plebiscito con battute del tipo di quelle menzionate e riportate dagli organi di stampa.

Ha commesso, però, l’errore di definire quel suo linguaggio ironico. Egli, da attento studioso di filosofia, sa che secondo Socrate l’ironia è una forma di distaccato umorismo che non ha nulla a che vedere con l’offesa e che tende alla relativizzazione delle false sicurezze e alla prese di distanza da atteggiamenti intransigenti e dogmatici, mai assunti, in verità, dai personaggi destinatari delle battute.

Per Freud poi ‘ l’essenza dell’ironia consiste nell’affermare il contrario di ciò che intendiamo comunicare all’altro’. Dal senso delle espressioni proferite sembra, invece, che agli altri sia andata l’esatta percezione del pastorello, della polpetta e dell’incapacità del citato Cesaro di utilizzare correttamente il modo congiuntivo.

Eppure il nostro sindaco, che ha nel suo programma elettorale il primario obiettivo di cambiare tutto se va a presiedere la giunta regionale, avrebbe potuto spiegare alla folla accorsa a piazza Plebiscito le ragioni della discontinuità della sua azione amministrativa nei riguardi di quella svolta da Bassolino. Ma la coerenza con lo slogan stampato in centinaia di migliaia di copie lo avrebbe spinto a fare un comizio contro la parte politica di appartenenza.

Così ha preferito fare lo show con infelici battute, imitando in  modo per niente eccellente il personaggio a cui tende ad avvicinarsi, vale a dire il cavaliere Berlusconi, il quale, ad esempio, nel tessere le doti al suo ministro Carfagna, ha voluto sottolineare, facendo divertire il prossimo, che la stessa, oltre ad essere una bella donna, ha anche le palle.

Il che biologicamente non è possibile!

 

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