Archivio per dicembre, 2013

IL LINGUAGGIO DEL PRIMO CITTADINO DI SALERNO TENDE A FARE ‘ AMMUINA’ E AD OFFRIRE TITOLONI DA SCATOLA AD UNA STAMPA CHE DISPREZZA

29 dicembre 2013

Salerno, 29 dicembre 2013

Ambrogio IETTO

DE LUCA E LA COMUNICAZIONE

Nonno Vincenzo, l’unico dei due nonni che ho avuto la fortuna di conoscere nel corso della fanciullezza, pur non avendo studiato psicopedagogia, riusciva ad essere un ottimo narratore con noi nipoti.

Tra i protagonisti delle sue ‘ storie’ ricorreva con una certa frequenza un certo Nicola Pepe, napoletano con denominazione d’origine controllata, nullafacente di professione, destinatario abitudinario dei frizzi e dei lazzi di una consistente schiera di scugnizzi che, agli inizi degli anni venti, evasori storici dell’obbligo scolastico, stazionavano prevalentemente lungo il corso Umberto I° a Napoli.

Per il nostro mattacchione il vivace sfottò dei ragazzi di strada produceva un effetto galvanizzante, trasformandosi in un gradevole sottofondo canoro – musicale. In una mattinata d’agosto particolarmente calda il ‘rettifilo’ si presentava quasi deserto. In particolare non si vedevano in giro i ragazzi che, probabilmente, insofferenti alla calura estiva, avevano preferito la marina dell’Immacolatella vecchia al consueto ‘ parcheggio ’ al corso Umberto I°.

Nicola Pepe non si perse d’animo e partì con passo spedito da piazza Garibaldi verso Palazzo San Giacomo a piazza Municipio. Scelse di camminare lungo il marciapiede, contento di percepire la sua sagoma ripresa, più o meno fedelmente, dalle luccicanti vetrine dei negozi. Contestualmente decise anche di accompagnare il suo originale modo di deambulare, alternando l’espressione tronca ‘Nicola Pé ‘ con una sonora pernacchia emessa dalle sue stesse labbra serrate.

Più o meno allo stesso modo fa il sindaco De Luca. Disprezza la stampa ma ne convoca i rappresentanti per la sua omelia in diretta. Ne profitta per ripetere le solite fesserie e dettare numeri e dati elaborati soltanto dall’incontenibile suo immaginario e dalla sfera psichica del suo subcosciente.

Afferma che soprattutto i quotidiani locali sono buoni solo per ‘incartare i pesci’ ma al Palazzo di città si sa che allo staff dell’ufficio – stampa egli chiede, in primo luogo, la rassegna dei giornali salernitani. Spera, così, che più incontenibile e volgare è risultata l’espressione verbale da lui utilizzata il giorno prima, più evidenti e coloriti saranno i titoli composti per l’occasione in sede redazionale.

Su questi stessi fogli, però, cominciano ad apparire corsivi, stelloncini, commenti di firme referenziate, appartenenti anche all’intellighenzia locale e allo stesso giornalismo professionistico. Buon segno in una città che è davvero diversa dalle altre d’Italia. Altrove, infatti, i tromboni durano l’espace d’un matin, a Salerno, invece, si accumulano lustri su lustri prima di leggere o di ascoltare nei loro confronti una sia pur delicata nota critica.

LA STORIA DI UN PRIGIONIERO TEDESCO, NOTO PITTORE, CHE ANCHE SE DI RELIGIONE PROTESTANTE, DIVENNE AMICO DI UN SACERDOTE CATTOLICO NELL’AREA INTERESSATA ALLO SBARCO DI SALERNO DEL SETTEMBRE 1943

26 dicembre 2013

Salerno, 26 Dicembre 2013

Ambrogio IETTO

Joseph Andreas Pausewang

Il trasferimento, dalla Francia alla fascia costiera immediatamente a sud di Salerno, del trentacinquenne soldato tedesco Joseph Andreas Pausewang inizialmente dovette risultare gradito al diretto interessato. Si era, infatti, ancora nel pieno di quell’estate del 1943. Trovarsi di fronte alle invitanti acque del mar Tirreno in giornate, contraddistinte a volte da una calura opprimente, poteva costituire un’opportunità unica per un uomo come Joseph, particolarmente sensibile al fascino della natura e cresciuto sotto le rare ombre della foresta circostante il piccolo, natio villaggio di Bobischau spesso innevato.

Molto probabilmente i suoi genitori avevano beneficiato di provvedimenti legislativi assunti tra il 1907 e il 1908 dal parlamento prussiano e finalizzati ad acquistare coattivamente, da proprietari polacchi, terreni da assegnare a coloni tedeschi. Pausewang venne alla luce proprio nel novembre del 1908 nel piccolo borgo rurale oggi denominato in lingua polacca Boboszów, frazione del comune di Mittelwald ( in polacco Mezilesi) nel distretto di Glatz ( oggi Klodzko ).

La sostituzione radicale dei toponimi di villaggi, paesi e città con la lingua polacca al posto di quella tedesca si verificò nel 1945, a conclusione del secondo conflitto bellico, quando la Bassa Slesia fu restituita alla Polonia, collocando, così, il territorio del comune di Mittelwalde – Mezilesi nella posizione di valico di frontiera ferroviaria tra la stessa Polonia e la Repubblica Ceca.

La restituzione di questi e di altri territori alla martoriata nazione polacca comportò contestualmente anche la migrazione della popolazione tedesca in località rientranti nel territorio consolidato della Germania. Così anche i congiunti di Joseph Andreas Pausewang, sua moglie Charlotte sposata nel 1933 ed i figli Barbara, nata nel 1939, e i gemelli Pietro e Joachim, nati nel 1942, furono costretti, insieme a migliaia di connazionali, a raggiungere la regione di Oldemburg, nel land della Bassa Sassonia, affacciata al mar del Nord. Qui, nella piccola città di Lohne che nel 1945 ospitava 8.000 abitanti, furono sistemati alla meno peggio, in locali di fortuna e con un vitto piuttosto precario, circa 3.700 sfollati tutti provenienti dalle località forestali della Bassa Slesia.

Joseph Andreas, da quanto si rileva da un’essenziale biografia disponibile su un sito internet a lui dedicato, doveva far parte della 16^ Panzer Division che, dopo la disfatta subita a Stalingrado nel novembre del 1942, in esecuzione del progetto di Hitler denominato ‘resurrezione’, venne ricomposta ed inviata prima in Francia e, quindi, in Italia meridionale, entrando concretamente in azione all’alba del 9 settembre 1943. Angelo Pesce, a pagina 46 dell’ottimo suo lavoro “Salerno 1943: Operazione Avalanche “, descrive nei dettagli il massacro che si verificò quella mattina, poco lontano dalla località di Magazzeno di Pontecagnano, con 5 ufficiali e 35 sottufficiali inglesi degli Hampshire uccisi ed oltre 300 prigionieri.

La storia ci ricorda che lo sbarco nel golfo di Salerno, da parte della Quinta Armata alleata, comandata dal generale Mark Clark, era cominciato poche ore prima, alle 3,30 di quello stesso 9 settembre. L’operazione ‘Avalanche’ , come ricorda nel sottotitolo del suo famoso libro “ Salerno ! ” Hugh Pond, ufficiale dell’esercito inglese e giornalista del ‘ Daily Express ‘, accumulò anche una ‘ valanga di errori e di morti ‘.

Nel pomeriggio del 10 settembre fu possibile conquistare l’aeroporto militare di Montecorvino ( l’attuale ‘Salerno – Costa d’Amalfi ‘ ) la cui piste, però, oltre ad essere ostruite da una quantità di fusti d’olio e da un paio di caccia lasciati abbandonati perché privi di motori, fino al 20 di settembre resteranno inutilizzate in quanto i tedeschi, dalle alture di Pugliano, Santa Tecla e Faiano le tenevano sotto tiro dei mortai.

Il giorno successivo la marina americana subì due gravi perdite: tra l’una e le due della notte fu affondato un cacciatorpediniere e a poco meno delle dieci del mattino fece la stessa fine l’incrociatore ‘Savannah’. Nonostante fossero state impiegate da parte anglo – americana tutte le riserve disponibili, i tedeschi continuavano a resistere con tenacia e determinazione. Il generale Clark, pertanto, considerava indispensabile chiedere rinforzi alla basi nordafricane e siciliane. Il 13 settembre 1943, infatti, ancora oggi viene ricordato come il giorno della crisi dell’intera, complessa ‘ Operazione Avalanche’.

Le difficoltà incontrate dagli uomini della Quinta Armata comportarono conseguenze gravissime per le popolazioni della Campania che furono sottoposte ad una serie di bombardamenti aerei avviata con molte vittime il 21 giugno precedente tra Battipaglia e Salerno.

Pond scrive che le truppe scaraventate nella zona di Salerno, dopo aver subito perdite immense, rischiarono di essere ricacciate in mare dai poderosi soldati tedeschi del feldmaresciallo Albrecht Kesserling. Aggiunge che se non ci fosse stato l’intervento diplomatico di Dwight David Eisenhower, all’epoca comandante in capo delle Forze Alleate nel Mediterraneo e, dal 1953 al 1961, 34° presidente eletto degli Stati Uniti, ‘ inglesi e americani si sarebbero trasformati in cani e gatti’.

Si sa bene, però, che la grande come la piccola storia si fa senza ‘se’ e senza ‘ma’. Per il granatiere tedesco Joseph Andreas Pausewang fortunatamente la sorte fu meno cattiva. Fu costretto a fermarsi per qualche anno ancora nell’area del conflitto tra Picciola e il Centro di raccolta dei prigionieri di Sant’Antonio di Pontecagnano ove dieci anni dopo, all’indomani della rivoluzione dell’autunno 1956, saranno accolte temporaneamente alcune centinaia di profughi ungheresi.

Nei pressi di Picciola, per iniziativa del comm. Carmine De Martino, direttore generale della SAIM ( Società Agricola Industriale Meridionale ) e, nel dopoguerra, deputato e Sottosegretario di Stato per la Democrazia Cristiana, furono realizzati una scuola dell’infanzia, un orfanatrofio e un’accogliente chiesa dedicata al Sacro Cuore. Al complesso fu dato il nome di Farinia in omaggio alla famiglia Farina ( Nicola, Mattia, il vescovo Fortunato Maria ) i cui componenti, originari di Baronissi, avevano promosso nella Piana del Sele una moderna e razionale trasformazione dell’agricoltura, introducendo nuovi procedimenti anche nel settore della zootecnia.

Nel 1942 aveva preso possesso della parrocchia del S. Cuore di Farinia padre Beniamino Miori anch’egli appartenente alla Congregazione dei Padri Stimmatini ed originario, come il suo indimenticabile confratello don Cesare Salvadori, della provincia di Trento. In una lettera del 30 dicembre 1942, indirizzata al fratello Enrico, don Beniamino descrive con realismo il contesto socio – culturale in cui è stato chiamare ad operare: “ la gente lavora sempre, quasi senza distinzione fra giorni feriali e giorni festivi e la massima fatica è sostenuta dalle donne. Tu puoi vedere, in questi campi senza limiti, donne vecchie e bambine di 12-13 anni con la zappa in mano per tutto il giorno, d’estate e anche d’inverno, perché qui continuano a lavorare, a seminare e a fare strapianti. Vivono molto male. Dalle nostre parti sono signore al confronto “.

L’incontro tra don Beniamino e Joseph Andreas fu innanzitutto un immediato atto di fraternità tra due credenti, il primo prete missionario della Chiesa Cattolica, il secondo fedele della Chiesa Evangelica. La guerra, il contatto frequente con ‘ sorella morte’, la sofferenza, la pratica quotidiana del sacrificio e della rinuncia uniscono e non dividono, ti spogliano di ogni alterigia, lasciano trasparire l’umanità di ciascuno e ti convincono che l’altro è figlio del tuo stesso Padre. Tra don Miori, dotato di profonda espressività e di straordinario intuito, e Pausewang, desideroso come un bambino impaziente di riprendere pennello e colori e scaricare il represso estro creativo sul telone disusato di un camion, l’intesa fu immediata.

Joseph Andreas scoprì che la chiesa del Sacro Cuore di Gesù in Farinia di Picciola lo riportava mentalmente alla delicata chiesetta di sant’Anna della natia Bobischau e che le sacre figure ‘ commissionategli ‘ da don Beniamino lo riconducevano agli inizi degli anni Trenta quando, frequentando a Dresda, la Firenze sull’Elba, case editrici e studi d’arte, ritornò più volte con la sua fidanzata Charlotte, poi diventata sua moglie, al

Gemäldegalerie, una delle maggiori pinacoteche del mondo. Qui ebbe modo di osservare con occhio competente e di ammirare il ‘ San Sebastiano’ di Antonello da Messina, la ‘Madonna Sistina’ di Raffaello, il ‘Cristo della moneta’ di Tiziano, ‘ La Madonna di San Francesco’ e la ‘Adorazione dei pastori’ di Correggio, la ‘Sacra Famiglia con Sant’ Anna e San Giovannino’ di Mantegna, la ‘ Madonna della Rosa’ di Girolamo Francesco Maria Mazzola detto il Parmigianino e tante altre significative opere pittoriche di altre scuole.

La mia età legittima qualche ricordo dei due personaggi richiamati. Anche don Beniamino, come l’intera mia famiglia, era stato costretto a lasciare la sua abitazione prossima alla chiesa di Farinia e a rifugiarsi, almeno di notte, a San Martino di Montecorvino Rovella, ospite della famiglia Mazzarella.

Nonostante i sessant’anni compiuti, al mattino di buonora scendeva ad andatura spedita con l’immancabile sua bici verso Picciola. Più problematica e faticosa la via del ritorno, dovendo affrontare la percettibile salita di Volta delle vigne. La sera dell’otto settembre 1943, alle 19.42, ci fu l’annuncio radio dell’amnistia firmata il precedente 3 settembre tra il Regno d’Italia e le Forze Armate Alleate. Anche a San Martino si festeggiò con mio padre in testa al corteo. Più tardi, però, l’ennesimo bombardamento aereo produsse non poche vittime. Don Miori fu tra i primi a soccorrere i feriti e a dare conforto ai parenti.

Per quanto riguarda Joseph Andreas egli fu uno dei tre prigionieri tedeschi che manifestarono particolare simpatia nei riguardi di me bambino di sette anni: Paolo, il soldato originario della Baviera, che spesso si rendeva disponibile, con l’approvazione di don Cesare, a trattenere noi ragazzini in giochi collettivi dinanzi la chiesa semidistrutta del sacro Cuore a Bellizzi, confermando le buone attitudini di maestro; Carlo, che donando a mia madre uno dei due teli bianchi di cotone della sua brandina, mi consentì di prendere la prima comunione coi pantaloni candidi il 15 agosto del 1944 e il pittore Andreas, amico di don Beniamino e di don Cesare, il quale, arrivando in quei giorni a Bellizzi dal vicino Centro di accoglienza di sant’Antonio di Pontecagnano, si dedicava con cura ai quadri oggi in dotazione della Parrocchia.

Ogniqualvolta che mi vengono in mente i versi che Luigi Mercantini dedica a Carlo Pisacane, il bel capitano de ‘La spigolatrice di Sapri ’, mi ‘riappaiono’ gli occhi azzurri ed i capelli d’oro di Joseph Andreas. Più volte, infatti, anche senza chiedere autorizzazione a mia madre, mi allungai da casa nostra verso i disadorni locali parrocchiali ove ero certo di trovare Joseph che mi accoglieva col sorriso e con una carezza, forse anche pensando ai figlioletti lasciati a Bobischau.

Anche per loro e per la moglie Charlotte la guerra non era finita. Li aspettava il lungo, sofferto esodo verso Lohne.

L’ARCIVESCOVO DI SALERNO MONSIGNOR MORETTI : UN NATALE CON UNA PARTICOLARE ATTENZIONE ALLA FAMIGLIA SECONDO IL CREDO CRISTIANO

22 dicembre 2013

Salerno, 22 dicembre 2013

Ambrogio IETTO

Una donna, un uomo, un Bambino

Gli ultimi dati dell’Istituto Nazionale di Statistica non indugiano nel collocare l’Italia tra i Paesi più vecchi del mondo, preceduta in Europa soltanto dalla Germania. Due i fattori che determinano questo risultato: l’elevata sopravvivenza, confortata dalla speranza di vita che in Italia è di 79 anni e 4 mesi per gli uomini e di 84 anni e 4 mesi per le donne, e il calo della fecondità e, quindi, la sempre più marcata diminuzione delle nascite.

Mancano poco più di due giorni al Natale, all’evento straordinario che, segnando in modo indelebile, due millenni di storia e di cultura dell’umanità intera, riconduce l’immaginario di credenti e non alla capanna di Betlemme con una donna dolce e carezzevole, un uomo buono e vigile ed un bimbo tenerissimo appoggiato in una mangiatoia, riscaldato dal foraggio che copre il fragile corpo e dal respiro di un bue e di un asinello. E’ questa l’icona che ha ispirato migliaia di pittori ed altrettanti poeti e scrittori i quali, a questa natività, hanno offerto la dimensione più autentica della personale creatività.

La Chiesa Cattolica identifica il gruppo di tre persone, una donna vergine e madre, un padre putativo e un bimbo, dichiarato nientedimeno figlio di Dio e Redentore dell’umanità, con la Sacra Famiglia.

E’ questo un trio che, sia pure per mezzo di statuine collocate in un paesaggio che allude a quello originale descritto dal Vangelo, alimenta la riflessione di milioni di persone sul significato vero da attribuire all’evento natalizio.

L’arcivescovo di Salerno Monsignor Luigi Moretti, con una prosa semplice, limpida, particolarmente sentita ha voluto sollecitare tutti noi a guardare l’umile mangiatoia, collocata nella grotta – capanna di ogni presepio allestito nelle nostre case e nelle chiese, e ad identificarla come la culla della speranza. Ovviamente il riferimento è al Bambino per eccellenza col quale ‘ è rinato il mondo ’, il ‘Verbo che assumeva la natura umana, dava compimento alle antiche promesse e apriva un nuovo orizzonte per la storia’.

Il Presule desidera che l’abituale colloquio natalizio con la comunità salernitana si soffermi proprio sulla famiglia, ricavando naturale ispirazione dalla famiglia di Nazareth.

C’è nella riflessione episcopale piena consapevolezza dei processi di cambiamento in atto nella società del nostro tempo determinati dall’insicurezza del domani, dalla crisi economica, dalla mancanza di lavoro in particolare per i giovani, da una molto fragile rete di servizi sociali, dalla sostanziale assenza di una politica concretamente ispirata al sostegno e alla salvaguardia della famiglia.

A queste macrocause si aggiungono modelli culturali segnati da diffuso egoismo, da edonismo fine a se stesso, dalla mancata condivisione della pedagogia del sacrificio e della rinuncia, da una visione estremamente flessibile e temporanea dell’unione tra un uomo ed una donna.

Il Natale, nella comune, diffusa antropologia italiana e meridionale, vuole che i componenti del nucleo familiare si ritrovino insieme, recuperando, se possibile, anche i nonni, oggi spesso relegati in solitudine, nel migliore dei casi assistiti da una badante, ahimè anch’essa lontana dalla famiglia d’origine.

Il documento del Vescovo, intelligentemente mediato dai suoi presbiteri, può costituire, almeno nei passaggi più significativi, spunto di riflessione tra quanti hanno la fortuna di ritrovarsi il prossimo 25 dicembre tra emozionati consanguinei.

LA SALERNO PRIMA DI DE LUCA: ” SCONOSCIUTA ED INSIGNIFICANTE “. QUANTA VANAGLORIA !

18 dicembre 2013

Salerno, 18 dicembre 2013

Ambrogio IETTO

Il magone di De Luca

Ho voluto deliberatamente riascoltare su you tube l’intervista rilasciata dal sindaco di Salerno a Franco Esposito, direttore di Telecolore, ed andata in onda ieri nel telegiornale delle ore 14. Oltre ad essere interessato a verificare l’esattezza o meno di due aggettivi proferiti nel contesto delle risposte e da me percepiti, come accade in tante famiglie mentre consumavo il pasto principale della giornata, desideravo anche ritornare con maggiore attenzione sull’espressività facciale del sindaco, decisamente diversa dal solito anche se mascherata dal consueto piglio arrogante.

L’osservazione meno occasionale e più sistematica del volto del sindaco lascia trasparire l’ulteriore, forzosa accentuazione di un’apparente solennità del suo dire di taglio pontificale finalizzata ad attutire, senza poterlo nascondere del tutto, il grosso magone che l’onorevole De Luca si porta dentro.

Di ragioni ne ha da vendere e non riguarda soltanto i sigilli che si sono estesi dal Crescent all’intera piazza della Libertà, l’agorà dei tanti suoi desideri ma anche del sogno di gloria di lasciare ai posteri le proprie ceneri a garanzia e a tutela della propria grandeur d’âme.

Le sue espressioni, così poco generose nei riguardi del partito di cui è rappresentante anche in sede ministeriale, lasciano ipotizzare preavvisi probabilmente a lui già giunti della mancata candidatura al governatorato della Campania.

D’altro canto è doveroso dare atto al nostro sindaco dell’incapacità sua a contenere linguisticamente le personali esternazioni. Ad esempio non solo è offensivo ma è anche scortese e per niente elegante riferirsi ad una giovane signora, parlamentare della Repubblica e sua collega di partito, ed evidenziare il suo modo di ‘ parlare a capocchia ‘ che in senso figurato significa ‘ parlare a casaccio, senza testa ‘, pur avendo consapevolezza che tutti i dizionari decodificano la capocchia in ‘estremità dilatata e convessa di una struttura lineare’( Sabatini – Coletti, pag. 387 ).

I due aggettivi realmente utilizzati nell’intervista e che mi convincono sull’incapacità – impossibilità per De Luca di mostrarsi persona dotata di essenziale equilibrio sono ‘ insignificante e sconosciuta ‘, due qualità attribuite alla città di Salerno del periodo antecedente l’avvio del suo sindacato.

Eppure questa città era ben conosciuta dallo scomparso suo papà che, con acume ed intuizione prospettica, ritenne che i 1000 abitanti isolati in quel di Ruvo del Monte ed abbarbicati a 674 metri sul livello del mare, non costituissero il capitale sociale positivo per assicurare al potenziale genio del suo figliolo la piena ed armonica realizzazione.

Il signor De Luca, desideroso di apprendere e di arricchire ulteriormente la sua intelligenza, aveva avuto modo di leggere che proprio non molto lontano da Ruvo, esattamente a Melfi, l’imperatore Federico II aveva firmato nel 1231 le Costituzioni ( il Liber Augustalis ) in cui veniva riconosciuta la notorietà di Salerno, sede dell’unica organizzazione formativa istituzionalizzata nel Regno ed abilitata a rilasciare il titolo di abilitazione alla professione medica.

De Luca padre sapeva bene che la città, mortificata poi dal figlio, si affacciava sul Mediterraneo e ricordava che il suo maestro insisteva tanto nel ribadire che la civiltà e il progresso hanno utilizzato sempre le vie del mare.

Onore, dunque, al compianto, onesto, piccolo commerciante di via Calenda e bocciatura piena per un figlio, sicuramente attivo amministratore, ma affetto da una delle più gravi patologie: la vanagloria, l’eccessivo ed immotivato compiacimento dei propri meriti.

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