APRIRE LA FINESTRA DEL CUORE E DELLA MENTE ALLA SPERANZA

In questa settimana post – pasquale è pervenuto al nostro indirizzo un breve scritto dell’amico e collega Luigi Antonio Gambuti, residente ad Afragola ( Napoli ). Trattasi di una riflessione particolarmente sofferta, ricca di significato ma anche implacabilmente orientata al pessimismo, quasi a sfiorare una sorta di nichilismo di comodo che con fa parte del corredo culturale di Gambuti. Per noi credenti, per nostra fortuna, c’è la Resurrezione di quel Cristo che nuove orde barbariche tentano, con eccidi e violenze di ogni genere, di cancellare dalla storia dell’umanità.
La speranza, puntualmente richiamata da Gambuti, è stata e resta la nostra unica arma. Essa, però, impone il dovere di testimoniarla. Come ? Semplicemente assumendo e manifestando comportamenti che vadano contro un imperante individualismo ed un pragmatico egocentrismo.

BUONA PASQUA A CHI ?
Non fossimo cristiani, di fede cattolica, ci manderemmo sonoramente a quel paese, viste le condizioni in cui si sono presentate quest’anno le feste pasquali.
Se Pasqua è passaggio e/o resurrezione, laicamente bisogna augurarsi che qualcosa risorga dalla palude in cui ci hanno impantanati.
Dove siamo tuttora, e già da tanto tempo, nonostante i tentativi mal riusciti che dal 2008 si sono succeduti sulla scena della politica che conta, cambiando capi di governo, nominando ministri e commissari, esperti di finanza e guru del cambiamento.
Siamo sempre al punto di partenza, col debito alle stelle, la disoccupazione a percentuali insostenibili e, quel che più preoccupa e fa male, la rottura della coesione sociale (altro che Landini!) che scava sempre più profondo il solco tra chi riesce a conservare il suo stile di vita e chi, suo malgrado, vede calare sempre più pericolosamente il livello di sopravvivenza, in una società sempre più ostile, che proietta un futuro sostenibile sempre più lontano.
Ci si guarda d’attorno. Si leggono i giornali, si seguono radio e televisioni. Ci si lega agli smartphone come allo scoglio le patelle e non si riesce a cogliere la tragedia che s’impone ogni giorno che passa lungo il cammino dei nostri passi sempre più stanchi, sempre più incerti.
Nel vuoto dell’anima non c’è deserto più deserto che tormenta l’esistenza; non c’è voglia di lottare, tantomeno di sognare, viene meno finanche la voglia di vivere nelle condizioni date.
Prima (ah! Quel prima nutriti di fame e di privazioni; sacrosanto periodo di riscatto da una condizione di miseria e di disperazione!) prima c’era voglia di vivere, la sfida di vivere e con essa il desiderio di sognare, di riuscire a conquistare piccole mete, laddove una canna da pesca e qualche grillo appeso all’amo rappresentavano la cena sicura assieme al pomodoro dell’orto casalingo; prima c’era una scala da salire e chi era capace, gradino per gradino, anche spellandosi le mani, riusciva a conquistare la cima di qualcosa.
C’era qualcosa a cui aspirare.
Oggi ci si lascia andare, conquistati e/o pervasi da una noia esistenziale che spegne ogni iniziativa, viste le vicende che scrivono e riempiono il diario delle nostre giornate.
Tutto è più facile sul versante dell’effimero; facile il sesso, facile il denaro, facile la droga, facili la violenza e la sopraffazione.
Difficile, sempre più difficile ‘accettare’ la croce quotidiana della fatica esistenziale, rispettare le regole del vivere civile, farsi largo tra la folla degli infoiati di mestiere, tra i furbi e i raccomandati. Tra i contenziosi e i processi che scandiscono il quotidiano vivere civile, nell’ incertezza del diritto e nel vuoto delle decisioni.
Si è smarrito lo stupore per le cose “nuove”, per le cose piccole e normali, per quelle ‘ cosette’ che una volta riempivano il vuoto esistenziale, quel vuoto, quello spazio vacante che oggi è diventato strutturale, come parte integrante di un presente sempre più incerto e fragile.
A che serve, dopotutto, riferire della follia di un pilota afflitto da sindrome suicida; di una madre-moglie rifiutata che avvelena il suo bambino; di due carabinieri che diventano banditi; delle suore francescane dell’Immacolata di Frigento; degli arresti di persone a noi vicine, altolocate ed ammirate per il loro saper fare (i fatti loro, si è visto!); delle urla di un Landini e del ritorno di Sarkò il seduttore; della propaganda ‘lenzuolate ‘ sui giornali, pagate coi fondi europei per la comunicazione, alimentata da un presidente regionale uscente di una regione ferma al palo; di un De Luca tirato a destra e a manca per una posizione incerta che gioca purtroppo a suo sfavore e che gli costa forza e vigore inconsueti in vista della tornata elettorale.
A che vale parlare di una democrazia “spappolata” e di una deriva autocratica renziana?
A che serve se tutto resta come prima, se non peggio, nell’attesa di una resurrezione laica che stenta a squarciare le nubi oscure di un orizzonte sempre più lontano dalle nostre aspettative?
A che serve ritornare –o è forse salutare!- là dove ‘ s’incimava ‘ alta la barriera del pioppeto in fiore?
Per chi è credente -il fortunato- tutto si acquieta e si risolve nell’affidarsi tra le braccia del Signore.
E accettare ciò che vien, perché ‘ così si vuole dove si puote e più non dimandare ‘.
Per chi non crede, privo della speranza che ne viene, vale riportare quanto segue, per significare il quadro esistenziale di una creatura destinata a percorrere, come il pastore errante nei campi dell’Asia, quelli di casa nostra, che più deserti non sono quanto più minati:
“cade, risorge e più e più s’affretta senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infine ch’ariva colà dove la via o dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando il tutto oblia.”
Così Leopardi, nel suo canto notturno, sulla fragilità dell’uomo.
Lasciando al lettore la facoltà di farsi l’augurio che più gli aggrada, licenziamo questa riflessione nel rispetto più assoluto della libertà di credere e pensare, che rappresenta la cifra identitaria della persona umana.

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